lunedì 30 marzo 2015

invecchiare bene vuol dire trovare se stessi




INVECCHIARE BENE VUOL DIRE TROVARE SE STESSI

RISPONDE Umberto Galimberti
Il modo migliore per vivere la tarda età è conservare il gusto e la curiosità di sapere chi siamo. Perchè è la scoperta che abbiamo rimandato per tutta la vita

Nella nostra società anche la vecchiaia, oltre alla morte, è un momento della vita da annullare per far posto all'immagine
di un'esistenza sempre attiva ed efficiente, dove non ci sono più le tappe fondamentali: l'infanzia si confonde con l'adolescenza, l'adolescenza sembra proseguire all'infinito, così non si diventa mai adulti e a 50 o 60 anni ci si può comportare come a 20.
E allora la vecchiaia dove sta? Mancano quelle analisi che si possono sviluppare solo se la conoscenza viene condivisa fra generazioni con il necessario accumulo di esperienze. Oggi gli anziani non sono una risorsa ma un costo, e questo è un fatto.
E allora noi "giovani anziani" che ci avviciniamo alla vecchiaia siamo spaventati, atterriti perché c'è poco presente e il
futuro rappresenta un luogo dove socialmente ed economicamente non ci sarà possibile vivere dignitosamente, perché la vecchiaia nella società non ha più un suo ruolo, e verremo espulsi senza alcuna pietà né conforto. Ecco perché l'angoscia e insieme il desiderio di poter ancora decidere della nostra fine, per evitarci umiliazioni che certamente non mancheranno.
Silvana Misto
s.misto@alice.it



Se è vero che si invecchia per ragioni biologiche, è altrettanto vero che in Occidente si invecchia peggio che altrove per ragioni culturali. La nostra cultura ha connesso la vecchiaia all'improduttività, per cui chi non produce, stando alla gerarchia dei valori tipici delle società avanzate, è ridotto all'emarginazione, quando non all'insignificanza sociale. I costi sociali della vecchiaia, dalle pensioni all'assistenza, hanno generato una nuova lotta di classe, non più tra poveri e ricchi, ma tra vecchi che per non sentirsi emarginati non vogliono lasciare e giovani che non sanno da dove incominciare.
Se la vecchiaia per la nostra cultura è un tempo inutile, non aveva torto Indro Montanelli quando auspicava per sé l'eutanasia per restituire all'individuo la sua dignità nei confronti delle leggi indifferenti della natura. Ma se conveniamo con la tesi di James Hillman secondo il quale il fine dell'invecchiare non è quello di morire, ma di svelare il proprio carattere, che ha bisogno di un tempo lungo per apparire a noi stessi prima che agli altri in tutta la sua peculiarità, allora la vecchiaia diventa davvero interessante e rende a noi stessi giustizia di tutto il tempo della nostra vita durante il quale, per affermarci, ci siamo trascurati e, quando per caso ci incontravamo, fuggivamo da noi stessi come dal peggior nemico.
La vecchiaia come una scoperta di sé e non come una ricerca spasmodica di una giovinezza ineluttabilmente perduta che, rincorsa, ci fa apparire patetici, oltre a svelare a tutti quelli che ci circondano come abbiamo imprigionato l'ultima parte della nostra vita all'idea diffusa dalla nostra cultura che celebra solo il mito della giovinezza. Questo, a parere di Hillman, è un grande danno anche per la società, perché: «Se la vecchiaia non mostra più la sua vulnerabilità dove reperire le ragioni della pietas, l'esigenza di sincerità, la richiesta di risposta su cui poggia la coesione sociale. La faccia del vecchio è un bene per il gruppo. E per il bene della società bisognerebbe proibire la chirurgia estetica, e considerare il lifting un crimine contro l'umanità».
Si dirà, va bene la scoperta di sé che abbiamo trascurato per tutta la vita, ma l'amore, che Freud considera la vera antitesi alla morte? Qui ci viene in soccorso Manlio Sgalambro, che nel suo Trattato dell'età, scrive: «L'eros scaturisce da ciò che sei, amico, non dalle fattezze del tuo sedere o delle tue spalle. Scaturisce dalla tua età che, non avendo più scopi, può capire finalmente che cos'è l'amore fine a se stesso. Una sessualità totale succede a una sessualità genitale. Qui l'amore raggiunge il proprio apice, che non è nella riproduzione a cui è legato l'animale di ogni specie, perché la specie non è niente, alcuni uomini sono tutto».
Se smontiamo le nostre idee troppo spesso vittime dell'Idea che la società ha diffuso sulla vecchiaia, persuadendoci e affliggendo l'ultima stagione della nostra vita, forse la vecchiaia può essere vissuta con il gusto della curiosità di scoprire chi siamo, dopo aver rimandato per tutta la vita questa scoperta, e di conoscere quella nuova forma d'amore che, come ci ricorda Ovidio: «la natura negò ai giovani», troppo presi dal gusto della conquista, che spesso risponde più alla propria gratificazione narcisistica che all'amore.Il modo migliore per vivere la tarda età è conservare il gusto e la curiosità di sapere chi siamo. Perchè è la scoperta che abbiamo rimandato per tutta la vita.


Umberto Galimberti


repubblica delle donne, 28 marzo 2015

venerdì 23 gennaio 2015

gli animali vanno a caccia di diritti

Interessante articolo su "La lettura" del corriere della sera. Da non dimenticare , però, l'opera di Gino Ditadi in due volumi "I filosofi e gli animali", Isonomia editrice, disponibile anche in una sintesi su un unico volume.

http://www.scienzaevita.org/rassegne/40317920747026abc758e630d9d18cb3.PDF

giovedì 22 gennaio 2015

Islam e ora di religione


Islam
Un nuovo spettro si aggira per l’Europa
Come il comunismo anche l’Islam è totalizzante, nel senso che non è solo religione e ciò che questa porta con sé
Ma è anche politica
di Vito Mancuso


“UNO spettro si aggira per l’Europa, lo spettro del comunismo”. Così inizia il Manifesto del Partito Comunista che Marx ed Engels pubblicarono a Londra nel 1848 e da allora dovettero passare quasi 150 anni perché quello spettro si placasse trovando pace. Quanto tempo dovrà passare perché avvenga lo stesso per lo spettro che nel frattempo ne ha preso il posto? Anche oggi infatti uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro dell’Islam.
Il parallelo con il comunismo non è casuale. Ben prima di diventare totalitario infatti il comunismo fu già da subito totalizzante. Non era cioè solo prassi politica, ma riguardava anche la dimensione interiore della persona alla quale si proponeva come cultura, etica, estetica, visione complessiva del mondo, non senza un’accentuazione religiosa per la fede e l’obbedienza richieste.
Allo stesso modo anche l’Islam è totalizzante, nel senso che non è solo religione e ciò che la religione porta con sé (etica, estetica, Weltanschauung); è anche politica, e nel suo essere tale anch’esso, da totalizzante, diviene spesso totalitario.
È possibile che una religione o un’ideologia totalizzante non diventi totalitaria? È possibile che le religioni (le quali sono tutte totalizzanti, perché per meno non sarebbero religio) non producano totalitarismi? Oppure, perché si possa dare libertà e quindi democrazia, occorre necessariamente la destituzione del pensiero totalizzante a favore del relativismo?
Per rispondere consideriamo il cristianesimo: come mai questa religione, che è stata totalizzante e totalitaria almeno quanto l’Islam, oggi non lo è più? La risposta consiste nel pronome personale “io”: il cristianesimo ha permesso alla coscienza di dire “io” e con ciò di distaccarsi dalla dimensione totalizzante di religione + politica. Lo strappo decisivo avvenne il 18 aprile 1521 a opera del frate agostiniano Martin Lutero che, a cospetto dell’imperatore Carlo V durante la Dieta di Worms, dopo che per l’ennesima volta gli era stato intimato di ritrattare, disse: «Non posso e non voglio revocare nulla, perché è pericoloso e ingiusto agire contro la propria coscienza. Non posso diversamente. Io sto qui. Che Dio mi aiuti. Amen».
Venne poi Cartesio che nel 1637 segnò la svolta del pensiero filosofico europeo dicendo «io penso, quindi sono» ( cogito ergo sum ), ovvero la più grande consapevolezza di me stesso in quanto uomo mi è data dal mio essere pensante. Da qui si aprì la strada all’Illuminismo e al cammino faticoso (e sanguinoso) verso la democrazia, dove l’io penso filosofico divenne un io penso politico e sociale.
La Chiesa cattolica si oppose sistematicamente a questo cammino: scomunicò Lutero, mise all’Indice Cartesio e gli illuministi, avversò ogni rivendicazione in tema di diritti umani, soprattutto la libertà di coscienza. Alla fine però dovette cedere e finì per rivedere la sua stessa dottrina: la libertà di coscienza, che Gregorio XVI in linea con molti altri pontefici aveva definito un “delirio” ( deliramentum), un secolo dopo, il 7 dicembre 1965, divenne parte della dottrina cattolica con il documento Dignitatis humanae del Vaticano II e oggi è parte integrante della predicazione dei Pontefici.
La Chiesa si è convertita? È stata costretta a convertirsi, avendo perso lo scontro con la modernità. La quale però, non lo si dimentichi, venne suscitata da credenti quali Lutero e Cartesio, e nutrita anche da altri credenti tra cui gli illuministi tedeschi Lessing e Kant, e se lo sottolineo è per evitare banali conclusioni laiciste e far comprendere quanto il discorso sia dialetticamente molto complesso. In ogni caso l’esito del processo di modernizzazione ci consegna oggi una religione quale quella cristiana che, mantenendo la sua carica totalizzante per la vita individuale, non cade per questo nel totalitarismo sociopolitico.
Potrà avvenire lo stesso per l’Islam? Potrà giungere esso ad accettare lo spirito della democrazia, della diversità, della dimensione plurale dell’esistenza che il mondo oggi impone? Nessuno lo sa e certamente sarà un processo molto duro che condizionerà la vita dell’Europa per tanti anni a venire.
Che fare per favorire questo processo? Vi sono misure a breve, a medio e a lungo termine. A breve termine si tratta di combattere il terrorismo con tutta la durezza necessaria, monitorando anche la predicazione dei vari imam e impedendo quella che si rivela fomentatrice di odio, ma senza mai associare al terrorismo l’Islam in quanto tale: la distinzione tra terroristi e musulmani è assolutamente decisiva se non si vuole avere un miliardo e mezzo di nemici e ostacolare l’evoluzione positiva dell’Islam.
A medio termine si tratta di giungere finalmente al riconoscimento ufficiale dello Stato palestinese da parte della comunità mondiale e mettere fine per sempre alla progressiva espansione dei coloni ebrei, facendo anzi tornare costoro nei territori di provenienza.
Oggi in Europa occorre sorvegliare con le armi le sinagoghe, ma l’Islam non è mai stato antisemita, gli ebrei hanno vissuto per secoli nei territori islamici, e quando il grande filosofo Mosè Maimonide fu costretto a lasciare Cordova sua città natale perché era giunta al potere una dinastia islamica oltranzista, non pensò minimamente di rifugiarsi nella Francia cristiana ma rimase ancora in terra musulmana, prima in Marocco poi in Egitto.
Se oggi molti musulmani stanno diventando nemici degli ebrei è solo per l’umiliazione sistematica cui è sottoposto da anni il popolo palestinese, con la compiacenza degli Usa. L’Europa non può e quindi non deve permettere più il protrarsi di questa ingiustizia.
Per quanto concerne le misure a lungo termine entra in gioco il discorso economico ed educativo, ovvero la possibilità di avere un lavoro e la scuola. Mi soffermo su quest’ultima. Il compito della scuola è offrire strumenti per la comprensione del mondo. Ora è evidente che senza mettere in gioco la religione il mondo oggi non lo si capisce.
In questa prospettiva l’Italia non può più permettersi di sprecare un’occasione così importante come l’ora di religione, di grande rilievo per la potenzialità geopolitica e al momento ben lungi dall’essere all’altezza della situazione.
Occorre trasformare l’ora attuale da insegnamento della religione cattolica in un’ora in cui siano presentate “tutte” le religioni, ovviamente in proporzione all’importanza di esse per l’Italia, e quindi con particolare attenzione ai monoteismi, ma senza trascurare le religioni orientali. Quest’ora di “religioni”, in cui non si tratta di credere ma di conoscere, deve essere obbligatoria e avere la medesima dignità curricolare delle altre. La condizione è ovviamente togliere alla Chiesa cattolica ogni potere in merito a programmi e scelta degli insegnanti, costruendo un’ora del tutto laica, rispettosa in egual modo delle diverse religioni e super partes , dalla quale nessun cittadino deve temere condizionamenti a priori alla coscienza, per lo meno non diversamente da quanto li si tema nell’ora di letteratura o di filosofia.
Anche così i nostri ragazzi impareranno fin da piccoli a conoscere i lati positivi delle religioni altrui e a non averne paura, quella paura che genera l’odio di cui si nutre lo spettro che si aggira attualmente nelle nostre menti, ma senza la quale esso potrà placarsi e trovare finalmente accoglienza e pace. 

Repubblica 22.1.15

giovedì 15 gennaio 2015

Non sappiamo più guardare


Contemporaneità. Tecnologie e mode ci focalizzano sul particolare, come un cecchino; non sull’universale, come uno stratega
e
Il cinema su smartphone ha ucciso il cinema e la nostra capacità di osservare il mondo

È il 1957, Charlie Chaplin gira Un re a New York. A un certo punto il protagonista, re Shahdov, monarca europeo sempre più stranito dal Paese che visita, va a vedere un film in Cinemascope, la novità del momento. La scena è famosa ed esilarante: piazzato in una delle prime file Shahdov (Chaplin stesso) cerca disperatamente di seguire quello che succede sullo schermo muovendo velocemente la testa a destra e a sinistra, come a una partita di tennis, affannato a cogliere tutto il «visibile» proiettato sul grande schermo. Come molte trovate comiche, la gag è basata sull’esasperazione. Certo quelle proiezioni gigantesche fornivano uno spettacolo mai visto prima. «Cinemascope », peraltro, è un brand commerciale che è passato a designare per antonomasia ogni proiezione con un rapporto altezza- base di 1:2,35 contro il tradizionale 1:1,33: il formato quasi quadrato del cinema classico di tutta la prima metà del Novecento. Si tratta di un procedimento tecnico che enfatizza un sentimento connaturato al rapporto tra film e spettatore: e cioè che il cinema è larger than life, come dicono gli americani. «Più grande della vita»: non solo per dimensione fisica, ma come amplificatore di emozioni, storie, percezioni.

A 50 anni e rotti di distanza dalla gag di Chaplin stiamo assistendo a un processo inverso, che implica dei cambiamenti radicali, quanto trascurati. Da oltre vent’anni siamo testimoni di una progressiva miniaturizzazione delle superfici di proiezione (il concetto stesso di proiezione è cambiato, in effetti). Da quando i film sono disponibili sui supporti informatici, si è passati dallo schermo delle sale ai monitor dei computer, fino ai display dei tablet e dei telefonini. Non solo: la qualità delle immagini è, paradossalmente, molto peggiorata. Se metti un video in streaming o su YouTube, devi scegliere tra velocità di download e «peso» dell’informazione. Quasi sempre questo significa una definizione mediocre dell’immagine, che però viene compensata, per così dire, dalla rapidità del consumo. In due parole: si vede sempre più piccolo e, tendenzialmente, peggio.

Contemporaneamente, nel campo degli apparecchi televisivi è successo il contrario. Le tv oggi cercano di copiare il cinema proponendosi come suoi surrogati: schermi di 50 e passa pollici in 16:9, sistemi audio in dolby surround 5.1, alta definizione a 2k (presto a 4k). Ma nonoantropologico. Il cinema tradizionale, quello larger than life, si basava su uno sfruttamento totale delle potenzialità dell’occhio, come ironizzava Chaplin. Era una visione che «apriva», in tutti i sensi: sia fisicamente che emotivamente. Guardare dentro un iPad o uno smartphone, invece, corrisponde a un’esperienza del tutto diversa: il fuoco della visione non si apre, si chiude in un angolo sempre più stretto. Non a caso è un guardare privato, mai comunitario.

Questa chiusura del fuoco su quello che hai immediatamente davanti agli occhi a scapito di quello che ti sta intorno, del contesto senza il quale l’immagine perde riferimento, rivela un più generale decadimento dell’attività del guardare. Non potrebbe essere altrimenti quando, dei 140 gradi di cui è capace il campo visivo degli occhi, se ne usano soltanto un terzo. Questo comporta conseguenze che non riguardano solo il cinema. Siamo diventati incapaci di leggere e decodificare quello che ci sta intorno nella vita reale, perché il fuoco è sempre sull’oggetto, mai sul contesto: in tutti i campi, dal politico al sentimentale. Guardare sempre più da vicino fa perdere il senso delle dimensioni, di quella proporzione dello sguardo umano che il cinema classico manteneva. Quello del cinema era, è uno sguardo oggettivo e condiviso; quello dei tablet o degli iPhone è uno sguardo soggettivo, più simile al rapporto che uno ha con un microscopio, una lente — o con un mirino. Non è un caso che molti videogame (che vengono giocati sugli stessi schermi su cui si vedono i film) siano «in soggettiva», se non addirittura «vissuti» attraverso il mirino di un’arma. Se il cinema classico ci faceva sentire simili a generali con una visione globale del campo di battaglia, la visione contemporanea è più simile a quella di un cecchino. Da cui derivano anche automatismi comportamentali pavloviani: lo stratega elabora piani, il cecchino schiaccia un grilletto…

Rovesciando la prospettiva, questo processo è perfettamente rappresentato dalla moda dei selfie. Di tutto quello che si può documentare riguardo alla propria presenza in un certo luogo, il selfie sceglie di lasciar perdere il mondo circostante per concentrarsi sulla faccia del soggetto. Rispetto all’autoscatto classico, che veniva usato per immagini più complesse (le tradizionali foto di gruppo, ricordate?), la meccanica del selfie conferma la tirannia dello sguardo da vicino: al massimo, la lunghezza di un braccio o di un piccolo supporto. Un cortocircuito rivelatore del fatto che oggi dalle immagini non ci si aspetta qualcosa di nuovo da scoprire, ma la conferma di quello che si sa.

Non si tratta di fare del moralismo o, tantomeno, di essere nostalgici. Si tratta piuttosto di rendersi conto di come attività apparentemente naturali — come il guardare — siano in realtà prodotti culturali condizionati dallo spirito dei tempi. Questa «chiusura» dello sguardo, per esempio, ricorda quello che capita al cavallo quando gli si mette il paraocchi: vede solo quello che gli sta di fronte. Cioè, solo quello che interessa al padrone che lui veda. Quella che sembra una semplice discussione accademica diventa allora subito una questione che ha a che fare con la libertà. E quindi ecco perché, come regista che ha sempre creduto nella capacità catartica del cinema, sono preoccupato dalla sua «riduzione» tecnologica. Un processo fisico che è anche artistico, morale e ideale; un processo che mette in crisi il rapporto tra narratore e spettatore. «I film liberano la testa», diceva Fassbinder.

Chissà se è ancora vero.

Davide Ferrario
La letura, corriere della sera, 2 gennaio 2015

martedì 30 dicembre 2014

auguri per un felice 2015

Alle mie affezionate lettrici e lettori, tanti auguri per un 2015 di pace e felicità.

Quest'anno i post sono meno dell'anno scorso: la ragione è che per diffondere idee, documenti e proposte "corte" che spero siano interessanti per altri e non solo per me ho spesso utilizzato Facebook, che per certi versi è più veloce e permette di contattare persone nuove. Al non blog ho riservato le cose più corpose. Ovviamente FB ha anche i suoi difetti, essendo un mare magnum nel quale si rischia di navigare, nuotare per ore fino ad affogare senza avere combinato nulla. Da parte mia, ho tolto ad esempio le notifiche dei post via email e smartphone, e i post me li vado a cercare quando mi pare. Ho oscurato dalla visione automatica anche molta gente simpatica che sì ti chiede l'amicizia, e gliela dai volentieri, per poi scoprire però che posta venti cose al giorno che vanno dalla foto del cane a quella della bistecca del vicino, oppure gira post che sono bufale pazzesche o vecchie come il cucco.
E disattivo anche le funzioni "dove sono", e non posto foto mentre  sono in vacanza (un'amica l'ha fatto, e le hanno svaligiato la casa).

Insomma, grazie a chi mi segue e a chi magari mi invia anche una email di commento!
Giorgio Gregori





Curti e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?

Chi era Fabio Curti? Chissà! Sicuramente una istituzione, per chi a Brescia segue i numerosissimi concerti e mostre (non è vero che a Brescia non succede niente, chi lo dice si trasferisca a New York e viva là felice e contento). Lo definivo "il professore". Mi dava l'idea di quegli insegnanti in pensione, solitari, abbandonati da tutti e che magari hanno difficoltà a tirare avanti. Le prime volte che lo vidi, decenni fa, alla inaugurazione di qualche mostra, aveva l'aria dell'"imbucato", di chi è lì per mangiarsi le tartine e rimediare la cena. Prendeva i depliant, e via per un'altra inaugurazione. Ma era anche ai concerti (senza tartine). E chi riusciva a scambiare due parole con lui, scopriva una persona molto curiosa (nel senso che era piena di curiosità, chiedeva notizie degli strumenti, come suonarli, ecc.). Ce ne sono sempre meno, di quelle persone. E rimpiango di non avere mai avuto il coraggio di parlargli, di chiedergli notizie di sè. Bello l'articolo che gli dedica Massimo Minini.


Curti e le sue carte. Quale futuro per il suo archivio?

Fabio Curti era come un fantasma. Un po' quel­l'impermeabile bianco, stile tenente Colombo che già di per sé dava un'idea di understatement, qualcu­no che "seguiva un suo pensiero senza troppo curarsi delle apparenze.
Cosa pensassero gli altri di lui non é che non gliene importasse, semplicemente era troppo occupato a rincorrere gli avvenimenti di sep­pur vago sapore culturale per porsi il problema. Guardava per terra davanti a sé mentre camminava, un po' per timidezza, un po' per la schiena, un po' per il peso del bottino; non salutava per troppa concen­trazione, sembrava non vedere. Invece vedeva tutto e ultimamente mi faceva persino dei trattenuti sorri­si...
Poi il suo incedere, con quella piega in avanti, chissà', una scoliosi, una deviazione o forse solo il peso delle carte che gentilmente, con mano (anzi manina) delicata ma determinata raccoglieva ad ogni dove.
Chissà chi era Fabio Curri, dicono un ingegne­re: se é vero, un Ingegnere anomalo, uno ammalato di cultura, di curiosità, di collezionismo spinto alla manìa. Uno che, narra la leggenda, rimase sotterrato sotto un catasta di documenti raccolti puntigliosa­mente negli anni, documenti che gli si sono ribellati, sotterrandolo. L'ho conosciuto, la prima volta, con il professor Giancarlo Piovanelli, mio insegnante di Storia dell'arte, anni fa. Vennero in galleria e restaro­no a parlare, veramente parlava solo Piovanelli, cui notoriamente non manca la parola specialmente se si parla d'arte. E mentre io e il mio ex professore ri­percorrevamo le nostre vite, lui allungava sguardi pieni di un triste ma determinato interesse verso le amate «carte». E si vedeva che le avrebbe anche man­giate pur di averle. Quel giorno gli diedi tutto quello che potevo e lui usci felice col suo sacchetto di plasti­ca bianco, anonimo, quelli dei fruttivendoli che non possono permettersi la sovrastampa personalizzata.
Quel sacchetto che sempre lo accompagnava, vuoto all'inizio del periplo, gonfio del cartaceo bottino al termine del suo «voyage au bout de la nuit». Niente a che vedere con Celine, un amico mi suggerisce piut­tosto Truffaut. lo propenderei per Monsieur Hulot e Jacques Tati, non fosse che la statura non corrispon­deva.
Sabato era in prima fila in Santa Giulia alla pre­sentazione del grande libro sulla Pinacoteca. Poco dopo non c'era più. Ma come é possibile? Ma come è possibile! E il suo archivio? Lo immagino enorme, di­sordinato, impilato in disequilibrio, non credo po­polato tanto di libri quanto piuttosto da documenti. Chissà dove abitava. Aveva una famiglia? Figli? Stavo per andare a trovarlo e capire come era fatto quel te­soro, forse una collezione importante per la cultura a Brescia. Posso chiedere agli eredi di non buttare via quelle montagne di cartacce e di farcele consultare?
Massimo Minini

Corriere della Sera, 24 dicembre 2014